GINO TOMMASI (ANNIBALE) V° BRIGATA GARIBALDI - “Fossoli, Mathausen, Wiener Neustadt, Steyr, Gusen III”

13.09.2020

di Attlio Bevilacqua (Affinità Elettive, 2018, euro 15)

Gino Tommasi, nome di battaglia "Annibale" fu forse l'unico partigiano a riuscire in buona parte nel difficilissimo compito di porsi come guida centrale per la Resistenza nelle Marche. Ciò grazie alle sue formidabili capacità di organizzatore, mediatore diplomatico, alle sue doti umane e solidaristiche e ai suoi inossidabili e incompromissori principi democratici. Questo nuovo saggio storico dell'anconetano Attilio Bevilacqua, scritto grazie alla rilettura e all'approfondimento di rari documenti, in parte inediti, ha il merito principale di essere l'unica biografia su un uomo al quale Ancona - dove nacque nel 1896 in una umile casa del Campo della Mostra (oggi piazza Malatesta), figlio di un portiere ferroviario - ha dedicato una via, ma della cui figura e del suo operato si hanno solo brevi descrizioni in altre pubblicazioni. "Quello che amareggia - scrive Bevilacqua riferendosi ad un importante congresso svoltosi molti anni dopo la fine della guerra - è la totale dimenticanza di Tommasi nel suo ruolo di organizzatore e responsabile della Resistenza".

Reduce come sottotenente della prima guerra mondiale, antifascista della prima ora, l'ingegner Tommasi si rifiutò di obbedire al decreto legge del 1933 con il quale Mussolini obbligava tutti professionisti ad iscriversi al Partito Nazionale Fascista, pena cancellazione dall'albo di categoria. Tirò avanti - tra minacce, angherie e aggressioni - come insegnante di matematica, controllore degli impianti a vapore nelle industrie e ispettore civile per i combustibili. Si suppone che entrò nel Partito Comunista d'Italia nel 1941, l'anno dopo fu tra i coraggiosi fondatori della Concentrazione, che poi aderì al Comitato di liberazione nazionale (Cnl) di tutte le forze politiche antifasciste doriche. Già ricercato, come responsabile di una organizzazione militare, fu tra i pochi a scampare a una retata di arresti. Il suo grandissimo e altamente incisivo compito di faro del movimento resistenziale armato iniziato dopo l'occupazione delle truppe tedesche di Ancona avvenuta il 15 settembre 1943 terminò il 9 febbraio 1944, quando fu catturato dai fascisti nell'abitazione di via Isonzo 54, dove la sua famiglia (la madre e i fratelli Guido e Lino), sfollata a Numana, alloggiava di tanto in tanto. Da quel momento, per Tommasi iniziò un'odissea divenuta quasi subito un calvario. Dalla caserma della 108° Legione fascista di viale della Vittoria fu trasferito nel carcere di Forlì, dove fu torturato ma mai fece i nomi dei compagni di lotta, poi alla caserma di Macerata, dove venne processato da un Tribunale di guerra germanico e condannato alla deportazione come nemico del Terzo Reich. Quindi transitò, vittima di indicibili sofferenze, come prigioniero per 13 mesi prima nel campo di smistamento italiano di Fossoli e poi in quello di concentramento, lavoro e morte di Mauthausen (21giugno 1944) e via via nei sotto campi di quel grande lager austriaco, ovvero Gusen I, Wiener Neustadt, Steyr, e infine Gusen III. A Gusen III, provato da una massacrante marcia di 210 km, le gambe e i piedi coperti di piaghe ed edemi causati da una gravissima distrofia alimentare, morì sfinito il 5 maggio 1945, tre ore prima che quel luogo infernale venisse liberato dalla II armata americana. Le sue ultime parole? I giovani compagni che lo tenevano fra le braccia raccontarono che raccomandò loro di non disperdere quanto avevano fatto per un'Italia libera e democratica. Già, Tommasi e i giovani. Studenti, militari sbandati dopo l'8 settembre 1943, partigiani, compagni di prigionia. L'autore di questo saggio sottolinea più volte la passione con cui Tommasi trasmise loro i valori per cui si era sempre eroicamente battuto. Straordinaria la testimonianza di un suo amico 22enne internato con lui a Wiener Neustadt, che con gli altri detenuti lo riteneva un punto di riferimento, assieme ad un avvocato di Milano: "Ci insegnavano, parlavano dell'antifascismo, parlavano della democrazia, parlavano dei partiti, parlavano...".

Del resto, Gino Tommasi Annibale aveva sempre parlato per insegnare, organizzare la lotta, infondere fiducia nella stessa, nonostante gli attacchi e le dure critiche, spesso infondate, subite da altri capi e militanti della Resistenza. Un uomo di pensiero ma anche di azione. Che si dette da fare in modo esemplare - spostandosi continuamente con la sua bicicletta o a bordo di una moto - per rifornire di grano i civili, per la sussistenza e l'armamento dei partigiani (cercando sempre di evitare rappresaglie e ritorsioni da parte dei fascisti e dei tedeschi nei confronti della popolazione), per condurre le formazioni ad assestare colpi rilevanti al nemico. Sempre incurante delle delazioni, dei pericoli e dei rischi che lo inseguivano.

Quest'opera di Bevilacqua ha anche altri pregi. Quello di evidenziare alcune verità. Falso che Tommasi, dopo il 25 luglio 1943 e la caduta del regime mussoliniano, condivise il tentativo di sottoscrivere un patto di pacificazione coi vecchi fascisti. Vero che dopo l'8 settembre, quando Ancona era presidiata solo da un centinaio di militari tedeschi, stilò un piano credibile per difendere la città, di fatto boicottato dalle autorità militari legate al nuovo governo del sud Italia guidato da Badoglio. Vero che - nonostante "Tommasi era stato investito ufficialmente dal CLN regionale come Comandante militare regionale, che significa unico, ed era suo compito dirigere le Brigate d'assalto Garibaldi, i distaccamenti, le bande, i gruppi, le squadre, i nuclei, i gruppi di azione patriottica, le staffette, i partigiani non combattenti, i gregari, gli informatori interni ed esterni nonché i Commissari politici", come scrive Bevilacqua - il CLN maceratese non lo riconobbe come capo. Le formazioni dell'Ascolano e del Fermano operarono autonomamente. Invidie, gelosie, divisioni, scontri, non solo di carattere politico (questi ultimi soprattutto coi leader del Partito d'Azione) alimentati dalla diffidenza verso il Pci rappresentato da Tommasi e dalla sua possibile egemonia sul movimento, minarono l'unità del fronte resistenziale e tali contrasti aumentarono dopo la sua uscita di scena. Bevilacqua si chiede a ragione, infine, come mai, un'organizzazione partigiana che all'inizio del 1944 aveva raggiunto uno spessore di militanza e una diffusione così capillare non tentò mai seriamente di liberare Tommasi né di impedirne l'arresto. 

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