Fascisti di provincia

02.05.2020

"Una storia politica nell'anconetano 1919-1945"
di Massimo Papini  
(Affinità Elettive, euro 18)

Il progressivo instaurarsi del regime fascista non avviene nello stesso modo in tutte le zona d'Italia. Sebbene metodi, azioni, pratiche, contraddizioni, abbiano caratteri comuni fin dall'inizio e finiscano poi per delineare in modo molto uniforme il ventennio della dittatura di Mussolini. "Fascisti di provincia - Una storia politica nell'anconetano" ha, tra i vari meriti, quello di descrivere in modo preciso, oltre che con forti capacità divulgative, nello stesso tempo due aspetti: le peculiarità della storia del fascismo dai suoi primi inizi alla sconfitta finale nel capoluogo marchigiano e nella sua area allargata; il modo in cui queste peculiarità di una realtà appunto provinciale "forse ai margini" di quella nazionale sia "significativa per comprendere la capillarità" di un apparato statale e governativo totalitario: in sostanza l'immagine di un movimento che (anche al livello locale, ndr.) nasce antisistema, che si trasforma in partito e poi in regime a tutela del sistema", come spiega la nota di copertina. Questo ultimo saggio dell'anconetano Massimo Papini (ex direttore e poi presidente dell'Istituto Storia Marche), dopo una introduzione dedicata alla genesi del progetto totalitario nell'intera regione Marche, mette a fuoco la parabola del fascismo nell'anconetano senza tralasciare nulla delle tematiche più importanti, arricchendole di note e passaggi quasi inediti. Come si evince del resto dai titoli dei capitoli: "Le origini", "Alla ricerca di un'identità", "Il regime", "il partito di massa", "Il rapporto con la Chiesa", "La cultura", "Il razzismo", "Arriva la guerra", "La guerra e i prefetti fascisti", "La Repubblica Sociale Italiana. L'agonia del regime", e l'ultimo, intitolato "Postille", molto originale, dedicato agli "eretici", ovvero a chi nel mondo della cultura "non sembra soffrire più di tanto la mancanza della libertà e, anzi, coglie nel fascismo delle potenzialità rivoluzionarie e crede che sia suo compito farle emergere dal grigiore diffuso" non con "l'impegno di avversare il fascismo, quanto di liberarlo dal conformismo". Lungo le pagine sfilano ben delineati i ruoli e le personalità dei capi e futuri ras: il repubblicano-nazionalista Nello Zazzarini, fondatore del primo fascio marchigiano a Senigallia il 4 luglio 1920 e del giornalino di stampo dannunziano "L'Adriatico"; il capitano Enrico Fabi, nei primi mesi del 1921 tra gli artefici del primo fascio ad Ancona di cui sarà sindaco tra il1923 e il 1926; il recanatese Silvio Gai, industriale del settore elettrico, capo del fascismo regionale ed unico eletto nelle Marche al Parlamento nel 1921, e che delle Marche potrà l'anno seguente considerarsi il governatore; il cavaliere Riccardo Moroder, ultimo discendente di una delle più potenti famiglie della Dorica, che dal 1926 resta podestà fino al 1939 realizzando molte opere pubbliche; Ferruccio Ascoli, altro calibro da 90, ma poi nel 1938 escluso dalla direzione del Corriere Adriatico perché ebreo (morirà ad Auscwitz); Francecso Scassellati Sforzolini, il 19 settembre 1943 nominato dai tedeschi padroni di Ancona commissario straordinario della provincia (solo per fare alcuni nomi).

Papini spiega come tra il 2 e il 4 agosto del 1922 ben 3000 camicie nere, per lo più venute da fuori, conquistano Ancona, considerata da Mussolini stesso difficilmente espugnabile visti i suoi recenti trascorsi rivoluzionari di segno opposto (vedi la rivolta dei Bersaglieri del 1920, la grande partecipazione popolare al "Biennio rosso", gli scioperi, le manifestazioni sindacali, l'occupazione operaia del cantiere navale).

Quanto alla popolazione anconetana in genere, all'inizio sta un po' alla finestra, poi, via via, finisce per apprezzare l'ordine sociale ristabilito col sangue e la violenza dai fascisti, complici esercito e forze di polizia, la crisi degli anarchici, l'uscita dal fronte antifascista dei repubblicani, il trasformismo dei liberali. Lo stesso vescovo Ricci esalta pubblicamente la ristabilita pace e il ritorno alla vita normale. E la borghesia, piccola e grande, le classi facoltose, agrari, industriali, apprezzeranno il regime, vi aderiranno, con casi non episodici di opportunismo e una certa continuità di figure istituzionali confluite nei gangli del nuovo potere antidemocratico, antiproletario, patriottico, imperialista. Insomma, sarà anche in provincia di Ancona, dopo la vittoria militare, anche vittoria fascista politico-culturale. Certo, non senza faide e dissensi interni allo stesso fascismo locale, non più movimentista e sobillatore, ma, appunto, regime che assicura e promette stabilità e prosperità per tutti assassinando ogni libertà. Gli ebrei - nonostante parte della classe dirigente ed economica fedele al regime - pagheranno, con le leggi razziali, questa infatuazione. Come nel resto del Paese, alcuni conosceranno il confino, professionisti privati del lavoro, docenti defenestrati, alunni fuori dalle scuole, funzionari fuori dalle istituzioni, col Corriere Adriatico ad alimentare la campagna d'odio razziale. Le autorità fasciste, nel complesso, avranno un pugno più morbido rispetto ad altre province e regioni. Ma i numeri delle vittime della Shoa sono comunque da incubo: annientati 68 ebrei marchigiani, di cui 50 della provincia di Ancona; tra le vittime illustri, anche gli industriali farmaceutici Giacomo e Sergio Russi; molti dovranno la salvezza all'intraprendenza del rabbino Toaf, il quale, avvertito dell'imminente retata dei nazi-tedeschi (che dopo l'8 settembre hanno occupato Ancona), chiude strategicamente la Sinagoga e facilita le fughe.

"Il paradosso conclusivo è che anche dopo la liberazione il fascismo non muore del tutto. Il caso del prefetto di Ancona Pièche, voluto dagli inglesi, getta un'ombra sulla stessa rinascita democratica", si legge nella nota di copertina. Anticomunista viscerale, uno dei più importanti agenti del Sim, dal 1932 al 1936 tra i capi del controspionaggio fascista, durante la guerra consulente dell'Ovra, la polizia segreta del Duce, resta al suon posto di prefetto fino al settembre del 1945, nonostante sia passibile di epurazione, ma la scampa per diretto intervento degli Alleati anglo-americani.

 Giampaolo Milzi

(tratto da Urlo-mensile di resistenza giovanile n° 268 gennaio-febbraio 2020)

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